COME SI E’ VISSUTI QUASSU’ PER MILLENNI
Dalla “fame di terra” che, per secoli e secoli, ha assillato le
famiglie contadine abbarbicate alle giogaie dell’Appennino tosco-romagnolo
al totale abbandono della zolla più o meno ubertosa e dei pascoli dei
giorni nostri. “Il mondo s’è ribaltato – ci dice
ostentando uno striminzito sorrisetto uno dei pochi montanari che hanno resistito
alla diaspora degli anni Cinquanta-Sessanta del Novecento che ha reso deserto
anche il fertile altopiano della Rondinaia -; ai miei tempi infatti ci si
scannava per un metro di terra di confine ed ora quassù, la terra è
diventata di proprietà di cinghiali, ma tant’è e la vita
continua”.
Si, quassù gli uomini hanno sempre duramente lottato per poter sopravvivere.
Lo hanno fatto fin dall’età della pietra e dei villaggi terramaricoli
quando gli Etruschi, gli Umbri, i Celti ed i Liguri vi confluirono. Poi, da
cacciatore, l’uomo diviene pastore e, infine, agricoltore. Guerriero
lo fu sempre sia per necessità di difesa che di offesa. Con il sopraggiungere
dei Romani, verso il 260 a.C., la conoscenza del vivere dei nostri antenati
valligiani è più documentata. Al tempo di Mevaniola, la città
fondata dagli Umbri e poi divenuta municipio romano, la pastorizia in Val
Bidente era fiorentissima. Vi si produceva carne ovina, suina e bovina oltre
ai latticini e alla lana che trovavano sbocco nelle città sorte lungo
la Via Emilia e per vettovagliare gli uomini della flotta stanziata a Classe
di Ravenna. Anche il legname era fonte di lavoro e di guadagno. Serviva infatti
per la costruzione delle navi e, in particolare, per le alberature. La foresta
di Lama –Campigna è stata sfruttata finchè le navi sono
state costruite col legno e le vele erano la principale forza motrice. I grandi
tronchi venivano trascinati coi buoi fino ai porti di Pratovecchio sull’Arno,
di Dicomano sul Sieve ed anche sul Bidente –Ronco. Legati tra di loro
a forma di zattera durante le piene venivano poi guidati fino al Tirreno e
all’Adriatico.
Saltiamo a piè pari tutto l’alto Medioevo e giungiamo all’anno
Mille. Le notizie in particolare per quel che riguarda la vita quotidiana
della nostra gente sono molto frammentarie e la leggenda (vedi le vite di
re Teodorico e di Sant’Ellero), diventano, spesso, storia. Come separare
il vero dal falso? Sta di fatto che gli abitanti di questa nostra montagna
diventano sempre più poveri. Con la scomparsa delle ville – aziende
agricolo-pastorali, con il crollo degli acquedotti, con la cessata manutenzione
delle strade consolari e non, la civiltà regredisce. L’avvento
del Cristianesimo, almeno dal lato dell’economia, serve a ben poco.
Ma facciamo ancora un gigantesco passo e, sorvolando le epoche bizantina e
longobarda, giungiamo a quando la nostra gente si trova a dover servire (come,
appunto, servi della gleba) i vassalli, i valvassori e valvassini creati durante
il Sacro Romano Impero di Carlo Magno. La cronaca del tempo ci dice che non
c’era pace neppure nelle valli più nascoste di questo nostro
territorio. Nel 786 il duca longobardo di Flurenzia (l’antenata di Firenze)
depredò la Corte Sassatina e cioè l’attuale Badia di Sasso.
E giungiamo al nuovo millennio. La gente che abitava quassù, ai margini
della grande foresta, aveva sempre più “fame di terra”.
E’, questa, pure l’epoca caratterizzata dal radicarsi del Monachesimo.
E’ nel 1012 infatti che il ravennate San Romualdo fonda a Camaldoli
il monastero e l’eremo che saranno poi soggetti preziosi per l’economia
di queste montagne. Furono infatti loro a curare i primi rudimenti della scienza
forestale. Col tempo fecero progredire anche l’agricoltura e di riflesso
anche la vita degli uomini di questo nostro territorio. E’ verso il
1050 che proprio qui, ai piedi di questo Memoriale alpino, sorgeva il castello
di Bleda dove nacque quel Rainero Raineri che nel 1099 diverrà papa
col nome di Pasquale II. Fu lui a proclamare alla cristianità l’esito
della prima Crociata: la conquista di Gerusalemme e del Santo Sepolcro da
parte di Goffredo di Buglione.
Fu appunto ai camaldolesi che, dopo averla tolta ai conti Guidi, la Repubblica
di Firenze consegnò la foresta. Siamo verso la fine del 1300. Da quel
momento incomincia la dura lotta per l’antropizzazione. I contadini
cercano di allargare i pascoli e le terre lavorative attuando i cosiddetti
“ronchi”, dando cioè fuoco a tratti più o meno vasti
di foresta allo scopo di metterne poi il terreno a coltura. Ecco quindi che
la selva antica si va a poco a poco restringendo. Con ciò però
non si risolvono i problemi economici. La miseria resta endemica poiché
di lì a pochi decenni quei terreni, dilavati dalle acque perché
in forte pendenza, diventeranno sterili.
Questo stato di cose purtroppo si è protratto per secoli e secoli e
cioè fin quasi ai giorni nostri. La fonte di maggior reddito è
comunque sempre stata data dal bestiame. Collettivismo e individualità
hanno convissuto plasmando sia la cultura che la mentalità della nostra
gente. Tutto ciò per quanto riguarda le campagne e i borghi isolati
poiché, al contrario, nei paesi a fondovalle dove vivevano il ceto
commerciale e artigianale oltre ai proprietari agrari e ai nobili il modo
di vivere era assai diverso.
Grande importanza avevano i beni di uso collettivo particolarmente estesi
nella vallata del Savio. Erano le cosiddette comunaglie costituite da pasture,
da boschi, da sterpaglie, nelle quali gli abitanti mandavano al pascolo il
loro bestiame e andavano a fare legna. Nelle fasi di popolazione crescente
sulle comunaglie si scaricava l’assalto della scure e della zappa dei
dissodatori.
Le forme del popolamento in montagna sono state dettate dalle strutture delle
proprietà, dal tipo di attività economica e da un certo abito
mentale degli abitanti. Non prendendo in considerazione le temporanee e fragili
dimore di frasche e zolle dei pastori transumanti o i ripari dei carbonai
e dei boscaioli, nel crinale appenninico gli unici insediamenti fissi erano
costituiti dai borghi e, più in alto, dagli eremi e dalle abbazie.
La forma tipica del popolamento era quella accentrata, giustificata dal forte
rilievo che i boschi, i prati, le proprietà di uso collettivo e le
attività pastorali avevano nella vita della comunità rispetto
alle terre coltivate, alle attività agricole, alla proprietà
privata e al suo frazionamento in attività diverse: tutte cose che
sconsigliavano la costruzione di case isolate. Gran parte della popolazione
era costituita da famiglie patriarcali bisognose di sostegno. Ecco quindi
l’emigrazione stagionale soprattutto verso la Maremma toscana come la
transumanza dei greggi sia per lavori cerealicoli, di silvicoltura, di bonifica
delle paludi, dell’estrazione di minerali. Se poi scendiamo verso l’alta
collina le cose in campagna cambiano. La società è più
diversificata. Nello specifico della Val Bidente bisogna tener conto che per
oltre cinquecento anni questa è stata tagliata in due da un confine
di Stato. Le leggi, essendo diverse, hanno costituito uno sbarramento colturale
oltre che culturale, cucina compresa. Le abitudini alimentari dei montanari
sono sempre state assai povere e, spesso, infarcite di drammaticità
per le difficoltà nell’approvvigionamento del sale che ha contribuito
al diffondersi della pellagra. Da qui il contrabbando del grano ma anche quello
della polvere da sparo e del tabacco. E poi questa nostra terra di confine
ha favorito il brigantaggio.
La fuga in massa dei montanari è avvenuta proprio quando lo Stato,
finita la seconda guerra mondiale, incominciò a costruire strade e
scuole. A Ridracoli, San Paolo in Alpe, Celle e Pian del Grado, tanto per
citare alcune delle località alle spalle di Rondinaia, anche il prete
dovette andarsene via. Pare una contraddizione ma fu proprio la tecnologia
a facilitare la fuga dalla montagna e cioè quando a sostituire i buoi
vennero i trattori. In quel decennio il Comune di Santa Sofia vide dimezzare
i suoi abitanti: da circa 9.000 a 4.300.
Ma la crisi della famiglia patriarcale era incominciata da tempo e poi l’Italia
di quegli anni da agricola stava diventando industriale e quindi il Nord richiedeva
forza lavoro. I nostri montanari abbandonarono stalle, ovini, pascoli e si
inurbarono. Anche i ridracolini, così refrattari a tutte le imposizioni
per cui la loro, da sempre, era stata una lotta contro il potere (impenitenti
bracconieri per la caccia al cervo e finti pazzi per evitare le guerre), furono
costretti a far fagotto e andarsene via per sempre.
Luciano Foglietta